Durante una conversazione, ti capita spesso di "fare il vago?" Ecco la spiegazione che devi assolutamente conoscere. Un modo per poter approfondire un'abitudine che accomuna tanti.
Succede più spesso di quanto si pensi. Durante una conversazione imbarazzante, in mezzo a una richiesta scomoda, o davanti a una responsabilità che non si vuole affrontare. In quei momenti, molti decidono di "fare i vaghi". Un’espressione familiare, quasi simpatica, ma che nasconde un meccanismo psicologico e sociale più complesso di quanto sembri. Fare il vago non è solo un modo per evitare problemi. È una forma di comunicazione indiretta, una strategia difensiva, un segnale sottile. Sono molteplici le situazioni che spingono le persone a non mostrarsi espressamente per quello che si è.
Chiunque, almeno una volta, ha eluso una domanda o ha cambiato discorso senza dare una vera risposta. Non sempre per cattiveria o malafede. Spesso, chi fa il vago lo fa per evitare un conflitto, per non esporsi troppo, o per prendere tempo. In altre parole: per proteggersi. Molto spesso, il timore di mostrarsi senza filtri e "senza difese", è inevitabilmente un modo di esporsi che mette in ampia considerazione, il rischio. In ambito lavorativo, ad esempio, fare il vago può servire a non assumersi una responsabilità che potrebbe generare critiche e possibili momenti di tensione.
Perché facciamo i vaghi (anche quando non dovremmo)?
Il punto centrale è uno: fare il vago è comodo. Consente di galleggiare tra le intenzioni, senza dover scegliere una posizione netta. In un mondo sempre più rapido e diretto, questo comportamento può sembrare fuori luogo, ma è ancora estremamente diffuso. C'è anche una componente culturale. In Italia, ad esempio, l’ambiguità comunicativa è più tollerata rispetto ad altri contesti. Frasi come “vediamo”, “ci sentiamo”, “forse” diventano strumenti per rimandare, per non dire di no esplicitamente. Un modo gentile o furbo, di non compromettersi. Ma non è solo questione di abitudine. C’è anche un fattore psicologico che rende il vagare così attraente. A questo punto è lecito chiedersi: è solo una strategia di fuga, o c’è qualcosa di più? Alcuni psicologi suggeriscono che fare il vago sia in realtà una forma di controllo. Chi mantiene una posizione ambigua, spesso lo fa per tenere l’altro in sospeso, per non scoprirsi del tutto. Pensiamo alle relazioni personali. L’ambiguità può creare un senso di attesa e incertezza che dà potere a chi la esercita. Non chiarire i propri sentimenti, può far sì che l’altro si sforzi di interpretare, aspettare, inseguire. Un gioco psicologico che mette chi fa il vago in una posizione di vantaggio.

C'è anche un'altra possibilità, meno manipolativa ma altrettanto interessante: fare il vago può essere una forma di intelligenza sociale. In contesti delicati, come una riunione di lavoro o una cena in famiglia, saper non dire troppo, restare sul generico, può evitare disastri comunicativi. In questo senso, il vagare diventa un'abilità diplomatica. Tuttavia, non sempre funziona. Quando abusato, il fare il vago può generare sfiducia, frustrazione e confusione. Gli altri iniziano a percepirci come inaffidabili o poco sinceri. Alla lunga, questo comportamento può compromettere relazioni e reputazione. In fondo, fare il vago non è un male in sé. E' però importante riconoscere quando e perché lo stiamo facendo. In certi momenti, dire “non so” può essere più onesto che girare intorno al problema. In altri, è meglio prendere posizione, anche rischiando qualcosa.
Superare la vaghezza: il potere delle micro-abitudini secondo B.J. Fogg
Un’interessante ricerca condotta da B.J. Fogg, direttore del Behavior Design Lab dell’Università di Stanford, indaga il motivo per cui molte persone faticano a cambiare abitudini o a impegnarsi in modo concreto. Contrariamente a quanto si pensa comunemente, il fallimento non è quasi mai dovuto a una carenza di volontà o disciplina, ma piuttosto a un approccio inefficace al cambiamento. Le persone tendono a porsi obiettivi vaghi e troppo ambiziosi, affidandosi unicamente alla forza di volontà e trascurando l'importanza del rinforzo positivo. Questo porta rapidamente alla frustrazione e a un ciclo negativo fatto di fallimenti e auto-svalutazione. Fogg suggerisce invece un metodo basato sulle "Tiny Habits", ovvero piccole azioni quotidiane così semplici da risultare quasi impossibili da fallire. L’idea è quella di costruire nuove abitudini a partire da micro-passaggi facilmente integrabili nella routine e di celebrare ogni piccolo traguardo raggiunto. Questo meccanismo genera un effetto positivo sulla motivazione e aiuta a consolidare il cambiamento in modo stabile e duraturo.
