C'è un motivo che ti spinge a dire "tanto è l'ultima volta" e poi a ripetere quel comportamento il giorno dopo. Scoprire tutte le curiosità è un modo per poter approfondire ogni dettaglio.
Capita a tutti, almeno una volta, di dirsi con convinzione: “È l’ultima volta” . L’ultima sigaretta, l’ultima notte passata a scrollare Instagram fino a tardi, l’ultimo messaggio a una persona che ci ha fatto soffrire. Lo diciamo con la sensazione che qualcosa cambierà, che da domani inizierà una nuova versione di noi stessi, più forte, più consapevole, più coerente. Eppure, il giorno dopo, eccoci lì: a ripetere esattamente lo stesso comportamento. Perché accade questo? Siamo deboli? Incapaci di cambiare davvero?
La risposta è molto più umana, e meno giudicante, di quanto si pensi. Dire “è l’ultima volta” è una strategia psicologica di autogestione che spesso si basa su bisogni profondi, emozioni intense e meccanismi cerebrali radicati. Non è segno di fallimento, ma di un conflitto interiore molto diffuso: quello tra la parte razionale di noi che sa cosa sarebbe meglio fare, e quella emotiva che cerca sollievo, gratificazione, conforto.
Il meccanismo nascosto dietro il “mai più”: ecco cosa devi scoprire
Alla base di molti comportamenti reiterati, anche quelli che vogliamo disperatamente abbandonare, c’è una questione di ricompensa immediata. Il nostro cervello è programmato per ricercare piacere e per evitarci la fatica. Comportamenti come mangiare dolci, fumare, guardare serie TV per ore o perdersi nei social media generano una gratificazione istantanea. Dire “è l’ultima volta” è anche una strategia per sentirsi al comando. In quel momento ci sembra di avere potere sulla situazione, come se con una frase potessimo chiudere il ciclo. È un modo per calmare l’ansia, per dare un confine simbolico a un comportamento che ci sta sfuggendo di mano. Un errore comune è sottovalutare la forza delle nostre abitudini. Pensiamo che basti dire “non lo farò più” per cambiare. Ma modificare comportamenti consolidati richiede tempo, consapevolezza e strategie precise. Non è questione di semplice forza di volontà. È come se ci aspettassimo che un albero cresciuto per anni in una certa direzione possa raddrizzarsi in una notte. Cambiare significa, innanzitutto, riconoscere la profondità delle radici. Significa accettare che certi meccanismi sono il risultato di esperienze, bisogni non ascoltati, automatismi mentali.

Ma come uscire da questa abitudine? Il primo passo è smettere di giudicarci. Questo processo è comune, umano, naturale. Il cambiamento non è una linea retta, ma un percorso fatto di inciampi, di ripetizioni, di progressi silenziosi. Accettare che è normale cadere aiuta a non mollare tutto alla prima ricaduta. Invece di porsi obiettivi drastici come “da domani mai più”, può essere più efficace scegliere micro-obiettivi: “oggi provo a ridurre”, “questa settimana vedo come mi sento se cambio qualcosa”. Il cervello è più incline a collaborare con cambiamenti graduali piuttosto che con rivoluzioni improvvise. Condividere ciò che stiamo vivendo con una persona fidata o con un professionista può alleggerire il peso del ciclo. Il confronto aiuta a vedere le cose con maggiore lucidità. Cambiare ambiente o routine può fare la differenza.
