Cosa dice di te il modo in cui racconti un aneddoto? La spiegazione da scoprire

Ecco cosa dice di te il modo in cui sei abituato a raccontare aneddoti agli altri. C'è una spiegazione che devi assolutamente conoscere e che ti aiuterà a scoprire aspetti e curiosità.

Ti è mai capitato di ascoltare qualcuno raccontare un episodio e pensare: "Avrebbe potuto dirlo in dieci secondi, e invece?” O al contrario, di desiderare più dettagli da chi liquida una storia in due battute? Il modo in cui raccontiamo un aneddoto, che si tratti di una figuraccia, di una vacanza indimenticabile o di un incontro casuale, varia enormemente da persona a persona. Ma c’è di più: non è solo una questione di stile narrativo. Quel modo, quel tono, quella scelta di dettagli, raccontano qualcosa di te, forse più di quanto tu creda.

C'è chi apre con un lungo preambolo, fornendo il contesto, presentando i personaggi e costruendo la scena con cura maniacale, come se stesse scrivendo un romanzo. Altri, invece, vanno dritti al punto: “Ero in coda al supermercato e tac! Il tipo davanti a me si gira e mi chiede se voglio uscire con lui”. Boom. Fine del preambolo. Questo modo di esporsi dice tanto su una persona e sulle caratteristiche messe in luce.

Raccontare per spiegare o per rivivere? Il punto di vista fa la differenza

Quando racconti un aneddoto, stai facendo una scelta narrativa, anche se non te ne rendi conto. Alcuni si pongono come cronisti, cercando di spiegare in modo oggettivo cosa è accaduto, come in una sequenza logica di eventi. In questo caso, i dettagli sono selezionati per servire la “morale” della storia: l’episodio ha un inizio, uno sviluppo e una fine, spesso con una conclusione o una lezione da condividere. Questo stile è tipico di chi tende a essere riflessivo, razionale e orientato all’analisi. È come se volesse mettere ordine nel caos della memoria, e offrire all’ascoltatore un piccolo racconto completo. Altri, invece, raccontano per rivivere. Per loro, il racconto è un modo per tornare a quell’emozione, a quel momento specifico. I dettagli abbondano, non necessariamente perché siano tutti “necessari”, ma perché aiutano il narratore a ricreare quel frammento di passato. Si parla dei colori, degli odori, del tono di voce, delle sensazioni corporee. Questo tipo di narrazione è più immersiva, più emozionale. Chi racconta così tende a essere sensibile, empatico, più incline a vivere le esperienze piuttosto che analizzarle.

Cosa dice il modo in cui racconti un aneddoto
Cosa dice il modo in cui racconti un aneddoto

Anche la durata del racconto è significativa. I narratori “prolissi” e qui non c'è giudizio, è solo un’etichetta neutra, tendono a voler dare un quadro completo. Temono che, omettendo dettagli, l’ascoltatore possa fraintendere o non cogliere il senso pieno. Questo può indicare un bisogno di controllo, o anche un forte desiderio di essere compresi fino in fondo. Non vogliono che “mancando un pezzo”, il racconto venga mal interpretato. Chi invece taglia corto, preferisce arrivare subito al punto, magari per timidezza, o per un atteggiamento più pragmatico. Ma c'è anche un terzo tipo: i narratori selettivi. Questi scelgono cosa raccontare in base a chi hanno davanti, personalizzando la narrazione. Sono bravi osservatori, capaci di adattarsi all’interlocutore. In questo caso, il racconto diventa una forma di relazione, più che di espressione personale.

Il racconto come strumento di identità: cosa riveliamo (e cosa nascondiamo)

Uno degli aspetti più affascinanti del raccontare un aneddoto è che, spesso, scegliamo storie che ci rappresentano. Raccontiamo quegli episodi in cui ci siamo sentiti brillanti, coraggiosi, vittime o vincitori. Non è un caso: quei racconti sono mattoni con cui costruiamo la nostra identità narrativa. Ogni volta che condividiamo una storia del passato, stiamo anche dicendo: “Questo sono io”. Ad esempio, chi racconta spesso figuracce potrebbe avere un’identità autoironica, oppure un bisogno di normalizzare l’errore. Chi invece condivide episodi di trionfo o superamento, sta affermando la propria resilienza. Ma attenzione: anche ciò che non raccontiamo dice qualcosa. Gli aneddoti che evitiamo, quelli che rimuoviamo, possono nascondere insicurezze o dolori che preferiamo non rivivere.

Inoltre, c’è un aspetto interessante legato al ruolo che assumiamo nei nostri racconti: siamo protagonisti, comparse, osservatori? Chi si pone sempre al centro, con un tono eroico o drammatico, tende a costruire un’identità forte, a volte un po’ egocentrica. Chi invece si racconta come osservatore, potrebbe essere più riservato o avere uno stile comunicativo più indiretto. Infine, il modo in cui reagiamo ai feedback durante il racconto è un altro indicatore chiave. Chi cambia versione in base all'interlocutore mostra flessibilità (o insicurezza?), mentre chi insiste nel mantenere la propria versione, anche se l’altro non sembra interessato, probabilmente ha un forte bisogno di esprimersi indipendentemente dal contesto.

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