Molto spesso, viviamo relazioni in cui i sentimenti e le sensazioni oscillano tra amore e mancata sopportazione. Ecco la spiegazione dell'ambivalenza affettiva, il punto di vista dalla psicologia.
Amare e odiare la stessa persona. Provare un’irresistibile attrazione verso qualcuno e, nello stesso tempo, desiderare di prenderne le distanze. Chiunque abbia vissuto una relazione profonda, ha probabilmente sperimentato questa sconcertante contraddizione. È la cosiddetta ambivalenza affettiva, una dinamica emotiva tanto comune quanto poco compresa, capace di generare confusione, senso di colpa, ma anche rivelazioni trasformative.
Secondo lo studio pubblicato su Psicologia Contemporanea, intitolato “L’eterna ambivalenza delle relazioni tra amore e odio”, le relazioni umane, in particolare quelle più intime, sono intrinsecamente ambivalenti. Amore e odio, attaccamento e desiderio di distanza, tenerezza e irritazione si intrecciano in un flusso emotivo complesso che riflette la nostra stessa condizione esistenziale: siamo esseri relazionali ma al tempo stesso profondamente individuali.
L’ambivalenza come stato emotivo naturale: cosa c'è da scoprire
La psicoanalisi, fin dalle sue origini, ha riconosciuto l’ambivalenza come un tratto strutturale della psiche. Sigmund Freud, che ne parlò diffusamente, definì l’ambivalenza affettiva come la coesistenza simultanea di amore e odio nei confronti della stessa persona. E, contrariamente a quanto si possa pensare, non la interpretò come un segnale di patologia o disfunzione, bensì come una condizione inevitabile nei rapporti significativi. Il punto centrale è la tensione tra due forze fondamentali dell’animo umano: il desiderio di fusione con l’altro e il bisogno di affermare sé stessi come individui autonomi. Freud lo spiegava con la “favola dei porcospini”: quando due porcospini sentono freddo si avvicinano per scaldarsi, ma se si avvicinano troppo finiscono per pungersi. Così devono imparare a mantenere una distanza sufficiente per trarre beneficio dalla vicinanza senza ferirsi.

Allo stesso modo, nelle relazioni intime dobbiamo costantemente negoziare il nostro spazio e quello dell’altro. Quando il bisogno di intimità si scontra con il bisogno di libertà, emergono irritazione, rabbia o atteggiamenti svalutanti, pur senza che il sentimento d’amore venga meno. L’ambivalenza non è quindi un’anomalia, ma un’indicazione di quanto quella relazione sia importante per noi. Dove c’è investimento emotivo, c’è anche vulnerabilità; dove si è vulnerabili, può nascere la paura, la frustrazione, il risentimento. Spesso questa dinamica si manifesta nei legami familiari, ma è altrettanto presente nelle relazioni di coppia. Amare qualcuno significa inevitabilmente trovarsi esposti, e quando ci si sente sopraffatti o non riconosciuti, la stessa intensità dell’amore può generare anche odio.
Oltre la dicotomia: imparare a stare nel conflitto
Ma cosa succede quando questa ambivalenza diventa troppo intensa o ingestibile? Quando il “ti amo ma non ti sopporto” si trasforma in un’altalena emotiva tossica, fatta di rotture, ritorni e incomprensioni continue? La risposta, secondo gli esperti, non è nel tentare di guarire dall’ambivalenza, bensì nel riconoscerla e imparare a conviverci in modo sano. Significa accettare che l’amore vero non è fatto solo di carezze e parole dolci, ma anche di conflitti, limiti e verità scomode. Il primo passo è smettere di vivere i sentimenti negativi come un fallimento. È perfettamente normale provare rabbia verso il partner, voler staccare la spina anche da chi amiamo profondamente. La maturità relazionale sta nel saper riconoscere questi momenti e utilizzarli per comprendere cosa ci sta accadendo. Il problema non è l’ambivalenza in sé, ma la nostra incapacità di tollerarla.
Un’idea originale che emerge dall’analisi di questo fenomeno è quella di considerare l’ambivalenza come uno specchio del nostro mondo interno. Le parti che ci infastidiscono nell’altro spesso riflettono fragilità, ferite o desideri inconsci che ci riguardano direttamente. Quando diciamo “non ti sopporto”, potremmo voler dire, in realtà, “non sopporto come mi fai sentire” o “non sopporto il lato di me che emerge quando sono con te”. In questa prospettiva, la relazione diventa un’opportunità di evoluzione psicologica.
Non si tratta solo di imparare a gestire meglio l’altro, ma anche di conoscere sé stessi più a fondo. L’ambivalenza diventa allora una chiave per scardinare automatismi, rompere schemi e costruire un amore più autentico, meno idealizzato. In conclusione, dire “ti amo, ma non ti sopporto” non è una contraddizione. È un’espressione onesta della complessità dell’amore umano. Significa accettare che il legame con l’altro è fatto di luci e ombre, di attrazione e resistenza, di abbracci e distanze. E forse, proprio lì, in quel fragile equilibrio tra opposti, si nasconde il segreto delle relazioni che durano e crescono davvero.
