Se ti sei mai chiesto come si chiamano i “peletti” del kiwi e a cosa servono, la risposta è semplice e scientifica: tricomi. Queste minuscole estroflessioni dell’epidermide vegetale hanno un ruolo pratico, non estetico. E spiegano perché il kiwi resiste bene lungo la filiera e mantiene una polpa fragrante e ricca di nutrienti.
Come si chiamano i peli del kiwi e a cosa servono davvero
I peli del kiwi si chiamano tricomi. In botanica il termine indica piccole strutture simili a peli che rivestono la superficie di molte piante. Sull’Actinidia chinensis (il kiwi “classico” a polpa verde) i tricomi formano la tipica buccia ruvida e “ispida”. La loro funzione principale è protettiva: agiscono come barriera fisica contro insetti e parassiti, rendono la superficie meno appetibile grazie alla consistenza e alla presenza di sostanze tanniche, e al tempo stesso riducono la perdita d’acqua mitigando l’evaporazione.
Non è tutto. I tricomi schermano parzialmente la luce solare, aiutando il frutto a non surriscaldarsi e a limitare l’ossidazione dei composti sensibili, tra cui la preziosa vitamina C presente nella polpa. In pratica, quel “velluto” funziona come un microcappotto: protegge mentre il frutto matura sulla pianta, lo difende quando viene raccolto, e continua ad aiutare durante trasporto e conservazione.
Curiosità utile: esistono varietà di Actinidia a buccia liscia e senza peli evidenti (come alcuni kiwi gialli o rossi). Non è che siano “nudi per caso”: semplicemente presentano tricomi molto meno sviluppati o assenti per selezione varietale. La funzione protettiva resta, ma affidata ad altri fattori della buccia.
Perché la buccia del kiwi è ruvida: benefici pratici anche in cucina
La buccia ruvida non nasce per complicarci la vita quando sbucciamo il frutto, eppure porta vantaggi anche a chi cucina. Proprio perché i tricomi limitano evaporazione e stress da luce, il kiwi arriva spesso a casa con polpa soda e aromi ben preservati. Se vuoi ridurre la sensazione “ispida”, lava e strofina il frutto sotto acqua corrente: i tricomi più superficiali si appiattiscono o si asportano facilmente. Sì, la buccia del kiwi si può mangiare (se ben lavata), e aggiunge fibre e composti fenolici: molti consumatori già la includono in frullati o centrifughe per aumentare l’apporto di fibra.I peli del kiwi hanno una funzione utilissima di protezione del frutto
In termini di qualità, il rivestimento “peloso” ha significato anche per chi conserva il kiwi: la minor dispersione d’acqua contribuisce a mantenere turgore e succosità, mentre la barriera fisica ostacola piccoli danneggiamenti superficiali. Il risultato? Un frutto che regge bene i viaggi e che, una volta a maturazione, sprigiona il caratteristico profumo verde e fresco che conosciamo.
Origine del kiwi: Cina imperiale, “yang tao” e primi usi
Il kiwi nasce in Cina. Le fonti storiche collocano le prime testimonianze già nel Trecento, quando il frutto era noto come yang tao e veniva offerto come prelibatezza nelle corti imperiali. La polpa color smeraldo, l’aroma erbaceo e la freschezza del sapore lo avevano reso un frutto “di rango”. Ben prima di diventare protagonista dei banchi ortofrutta, l’Actinidia veniva coltivata anche come curiosità botanica e per uso ornamentale: nel XIX secolo arrivava in Europa proprio con questo ruolo, affascinando vivaisti e botanici per i tralci vigorosi e la fioritura elegante.
Dalla Nuova Zelanda al nome “kiwi”: la svolta del Novecento
Il salto verso la diffusione internazionale avviene nel 1904, quando l’insegnante Isabel Fraserporta in Nuova Zelanda semi di Actinidia dalla Cina. Le piante attecchiscono, i coltivatori iniziano a sperimentare e, tra gli anni ’40 e ’50, il frutto viene commercializzato con il soprannome di “uva spina cinese”. Nel 1959 nasce il nome che tutti usiamo oggi: “kiwi”, in onore dell’iconico uccello del Paese, piccolo, marrone e… peloso. Quel rebranding funzionò: il frutto si impose sui mercati di lingua inglese e poi conquistò il resto del mondo, grazie a gusto, resa logistica e immagine esotica ma accessibile.
Arrivo e successo in Italia: dal primo impianto al primato produttivo
In Italia il kiwi arriva all’inizio degli anni ’70, importato dalla Nuova Zelanda. I primi impianti spuntano in Romagna, poi la coltura dilaga nel Lazio, Piemonte, Veneto e in altre regioni con suoli freschi e climi adatti. Nel giro di pochi decenni, l’Italia diventa uno dei maggiori produttori mondiali e il kiwi italiano si afferma come uno dei frutti più esportati del comparto. La combinazione tra condizioni pedoclimatiche, tecniche agronomiche moderne e organizzazione di filiera ha permesso di raggiungere standard qualitativi elevati e continuità di fornitura sui mercati internazionali.