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Siamo davvero meno intelligenti di quanto pensiamo? La conferma non arriva da un’opinione provocatoria, ma da un solido filone di ricerca scientifica sviluppato tra psicologia cognitiva e filosofia della mente, tra cui gli esperimenti analizzati nel saggio “The Knowledge Illusion” di Steven Sloman e Philip Fernbach. Il tema è riaffiorato nelle ultime ore sui social grazie a un video della content creator e filosofa divulgativa Ludovica Cennamo, che ha riportato all’attenzione un paradosso semplice: ognuno di noi crede di sapere molto più di quanto sa davvero.
Questo fenomeno porta a una discrepanza continua tra percezione della nostra competenza e conoscenza effettiva, con effetti che vanno ben oltre la sfera personale: incidono sulla politica, sulle dinamiche sociali, sulla nostra capacità di selezionare leader e persino sulla formazione delle nostre convinzioni morali.
Perché ci crediamo più intelligenti: l’effetto illusione della conoscenza
Sloman e Fernbach hanno mostrato a decine di partecipanti un quesito apparentemente innocuo: spiegare come funziona una bicicletta. La maggioranza ha risposto con sicurezza, descrivendo pedali, ruote, equilibrio. Poi è arrivata la seconda richiesta: disegnala. Ed è crollato tutto. Molti non sapevano indicare con precisione la posizione della catena, del cambio, né spiegare perché una bici da ferma cada. La mente conserva più narrazioni vaghe che modelli reali.

Questo meccanismo è noto in letteratura come illusione della profondità esplicativa: crediamo di saper spiegare un sistema complesso, finché non ci viene chiesto di renderlo concreto. È lo stesso motivo per cui giudichiamo con sicurezza temi economici, leggi internazionali, biotecnologie o l’intelligenza artificiale pur non avendo mai consultato un solo paper scientifico. Il cervello, per risparmiare energie, ci consegna un’impressione di competenza, anche quando la competenza non c’è.
Non cerchiamo la verità: cerchiamo conferme di ciò che siamo già
Secondo le ricerche sul confirmation bias, la maggior parte delle persone non elabora informazioni per avvicinarsi alla verità ma per rafforzare la propria identità. Quando un contenuto conferma ciò che già pensiamo, lo percepiamo intelligente. Quando lo contraddice, lo etichettiamo ignorante. Per questo, come sottolinea Cennamo, tendiamo a giudicare “intelligente” chi la pensa come noi, e “stupido” chi la pensa diversamente.
Questo automatismo alimenta la dinamica tribale della politica contemporanea. I leader vengono seguiti non per competenza ma perché dicono esattamente ciò che desideriamo sentirci dire. In pratica – come suggerisce la filosofa – non stiamo seguendo loro, ma un riflesso compiaciuto di noi stessi.
Il caos, l’abisso e il bisogno di miti
Da qui è inevitabile la connessione con Friedrich Nietzsche e il suo celebre monito: “Chi combatte i mostri deve guardarsi dal diventare egli stesso un mostro. Quando guardi a lungo nell’abisso, anche l’abisso guarda dentro di te.” L’abisso, nella sua lettura, non è qualcosa di oscuro ma la natura instabile e incomprensibile del reale. L’essere umano prova disagio davanti alla complessità, e risponde creando miti rassicuranti, leader forti, cornici ideologiche nette.
Non tanto per conoscere meglio il mondo, ma per difendersi dalla vertigine del non sapere. Ed è proprio in questo rifiuto del dubbio che nascono polarizzazione, dogmatismi e fanatismi.
La vera intelligenza oggi: saper riconoscere ciò che non sappiamo
Ludovica Cennamo conclude il suo ragionamento con una proposta radicale: riconoscere che non sapere è utile. Perché apre invece di chiudere. Consente ascolto, curiosità, possibilità. Accettare che il nostro punto di vista non sia l’unico non mette in crisi l’identità, la rafforza in modo maturo. Forse l’errore più grande non è sbagliare, ma non accorgersi neanche di poterlo fare.
E allora la domanda cruciale diventa: quando ti senti più intelligente degli altri, stai davvero pensando o stai scegliendo ciò che ti rassicura? Da quella risposta passa la differenza tra opinione e lucidità.
