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Altro che spa, comfort a cinque stelle e colazione continentale. In Corea del Sud la nuova frontiera del relax si chiama “Prison Inside Me”, un hotel le cui stanze assomigliano letteralmente a celle d'isolamento. Situato a Hongcheon, 80 km a nord-est della capitale Seul, questo curioso “ritiro spirituale” propone un concetto radicale: rilassarsi dietro le sbarre.
Sì, hai letto bene. Per circa 120 euro a notte, ti rinchiudono in una cella di 5 metri quadrati. Niente Wi-Fi, niente specchi, niente distrazioni. Solo un tappetino per dormire, un tavolino, un WC e una porta con uno sportellino da cui viene passato il cibo. Chi soggiorna qui non vuole fare nulla. Letteralmente.
Perché qualcuno dovrebbe pagare per “farsi arrestare”?
L'ideatore è un ex avvocato, Kwon Yong-Seok, che dopo aver vissuto in prima persona il burnout da lavoro – con settimane da oltre 100 ore – ha deciso di costruire una struttura dove le persone potessero “spegnersi” e ritrovare se stesse.
In Corea del Sud non è raro trovare chi lavora oltre ogni limite. Secondo i dati OCSE, i sudcoreani trascorrono in media 2.069 ore all’anno al lavoro, contro la media OCSE di 1.764. Il paese è considerato tra i più workaholic del mondo, secondo solo al Messico. La situazione è diventata talmente grave che dal 2018 tutti i PC dei dipendenti del settore pubblico si spengono automaticamente alle ore 18:00 in punto ed è impossibile accenderli fino al mattino seguente. Nel settore privato - per non parlare dei liberi professionisti - applicare norme simili è molto più complicato.
Così Kwon e sua moglie Ji-hyang Noh hanno investito circa 2 miliardi di won (oltre un milione di euro) per realizzare “Prison Inside Me”. La filosofia è semplice: meno distrazioni, più introspezione. Il programma prevede meditazione, yoga leggero, scrittura diari e silenzio assoluto. Niente social, niente chiacchiere: paghi per rimanere da solo, lontano da tutto e tutti.
Una vacanza da galeotti? Per molti è un sogno
“Il vero carcere è il mondo là fuori”, afferma Ji-hyang. Uno slogan pubblicitario semplicemente perfetto, di cui gli va dato atto. E a giudicare dal successo, sembra che molti sudcoreani condividano l’idea. L’hotel è attivo da più di un decennio e ha ospitato centinaia di “detenuti volontari”.
Uno di loro è Suk-won Kang, ingegnere di 57 anni impiegato in una fabbrica Hyundai e Kia. Stressato da settimane lavorative da 70 ore, nel 2017 ha pagato 500.000 won (circa 260 euro) per una settimana di isolamento totale. Alla fine del soggiorno ha dichiarato: “Mi sento più leggero. La mia mente è libera”. Era già alla sua terza visita. Può sembrare 'estremo' ma a lui è servito.

I pasti, come nei penitenziari di quasi tutto il mondo, vengono consegnati attraverso una fessura nella porta. La giornata è scandita da rituali minimalisti e silenzio, con l’obiettivo di creare uno stato mentale simile a quello dei monaci buddisti. Non a caso il programma intensivo di riflessione si chiama “The Gateless Gate”, il cancello senza barriere.
La prigione dell’anima (moderna)
Kwon racconta di aver trovato ispirazione dopo essersi reso conto che “non riusciva più a smettere di lavorare”. Un giorno, ha detto: “Mi sembrava di non avere più controllo sulla mia vita”. Oggi, quando cammina, afferma di farlo anche all’indietro per guardare la strada appena percorsa. “Guardiamo sempre avanti, ma a volte dobbiamo anche fermarci e riflettere su ciò che abbiamo vissuto”.
Un concetto forte in un paese dove il successo personale è spesso misurato solo con la produttività. E così, rinchiudersi in una cella spoglia diventa un atto di ribellione contro l’iperconnessione, una pausa consapevole dalla frenesia. È improbabile che in Italia nasca un'iniziativa simile, ma è interessante notare quali sono le conseguenze del lavorismo in un paese lontano geograficamente e culturalmente dal nostro.
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