Cosa significa cucinare anche quando non abbiamo fame, secondo la psicologia

Per quale motivo ti capita di cucinare anche quando non hai fame? C'è una spiegazione che mette in luce aspetti e considerazioni proprio su quest'abitudine. Scopri i dettagli più salienti.

È sera, la casa è tranquilla, il frigo è pieno. Non abbiamo fame, eppure ci ritroviamo a impastare, affettare, rosolare. Forse prepariamo una torta, senza nessun compleanno in vista. Forse sperimentiamo una nuova ricetta vista su Instagram. Ma perché cucinare, quando non c’è lo stimolo della fame a guidarci? Questo comportamento apparentemente irrazionale è tutt’altro che raro, e la psicologia contemporanea ci offre chiavi di lettura affascinanti per comprenderlo. A volte, cucinare è una risposta a stimoli interni o ambientali diversi dal semplice bisogno energetico. È un modo per esprimere creatività, per cercare conforto o per ritrovare un senso di controllo sulla propria quotidianità.

E' qui che è possibile parlare della fame edonica, ovvero quel tipo di desiderio di cibo che nasce non da un reale bisogno fisiologico, ma dal piacere che immaginiamo possa darci. Non abbiamo lo stomaco vuoto, ma vediamo una pubblicità di biscotti al cioccolato o sentiamo il profumo del pane appena sfornato, e scatta qualcosa. È una fame che viene dalla testa più che dallo stomaco. Imparare a distinguere le due cose, è importante per mangiare con consapevolezza e avere sempre a propria disposizione, un'immagine chiara.

La cucina come terapia: meditazione, cura e identità

Questa dinamica è al centro di numerose ricerche, tra cui quelle legate alla cosiddetta Power of Food Scale (PFS), una scala psicometrica che misura quanto siamo sensibili agli stimoli legati al cibo. Le persone con punteggi alti alla PFS sono più inclini a reagire a stimoli visivi, olfattivi o persino immaginari legati al cibo. In altre parole, il solo pensiero di un piatto goloso può bastare ad attivare nel cervello le aree della ricompensa, come il sistema dopaminergico, esattamente come accade per chi sta realmente morendo di fame. E non è tutto. Alcuni individui mostrano anche una minore capacità di inibizione degli impulsi, il che rende più facile passare dal desiderio all’azione. Dalla voglia improvvisa alla cucina piena di vapore e spezie. Per loro, cucinare può diventare una sorta di gratificazione anticipata, una promessa di piacere che vale la pena inseguire, anche senza appetito.

Cucinare senza avere fame
Cucinare senza avere fame

In molti casi, cucinare in assenza di fame rappresenta una forma di cura emotiva. Mentre impastiamo o tagliamo le verdure, il cervello si concentra su gesti ripetitivi, quasi rituali. Questo tipo di attività manuale ha un effetto calmante, quasi meditativo. Il ritmo della cucina offre una struttura rassicurante, soprattutto nei momenti in cui tutto il resto sembra sfuggire di mano. Proprio su queste basi si sviluppa la Cooking Therapy, una forma di intervento psicologico in cui cucinare, soprattutto in gruppo, diventa strumento per elaborare emozioni, migliorare l’autostima e riconnettersi agli altri. Qui il cibo non è più oggetto di consumo, ma mezzo di comunicazione. Preparare un piatto per qualcuno, o con qualcuno, può avere un impatto terapeutico profondo, anche se nessuno ha davvero fame. Cucinare può anche diventare una strategia per riconnettersi con se stessi, con la propria storia e le proprie radici. Alcuni scelgono ricette della tradizione familiare come forma di recupero dell’identità. Altri si immergono in cucine esotiche per esplorare il nuovo. In entrambi i casi, il cibo è linguaggio. Un linguaggio simbolico, affettivo, in grado di esprimere molto più di quanto possano fare le parole.

Cucinare per controllare, per creare, per sentirsi vivi

In un mondo spesso imprevedibile, cucinare offre una delle poche esperienze umane in cui causa ed effetto sono chiari e immediati. Mischiando determinati ingredienti, si ottiene un determinato risultato. È un processo trasformativo, ma governabile. Per chi si sente sopraffatto da ansie, incertezze o emozioni, cucinare è un gesto che riconsegna potere personale. In questo senso, la cucina assume una funzione simbolica. È un luogo dove possiamo decidere, modificare, costruire qualcosa di nostro. E non importa se poi mangeremo o meno ciò che abbiamo preparato: ciò che conta è aver creato qualcosa. Anche solo per noi stessi. Cucinare, quindi, diventa una forma di resilienza: una risposta creativa e costruttiva a stati emotivi complessi. Una dichiarazione implicita: “sono ancora capace di fare, di inventare, di prendermi cura”.

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