Per quale motivo molti finiscono per scegliere sempre la stessa spiaggia per trascorrere una giornata al mare? Ecco cosa si nasconde dietro quest'abitudine comune per tanti.
Ogni estate inizia con la stessa promessa: quest’anno cambieremo. Quest’anno niente più spiagge affollate, ombrelloni numerati, gli stessi bagnini che ci salutano per nome. Eppure, puntualmente, ci ritroviamo a imboccare la solita strada verso il mare, a cercare quel parcheggio sotto il pino storto, a ordinare il primo caffè al bar dove il tempo sembra essersi fermato. Perché? Non è solo comodità. Certo, la familiarità gioca un ruolo: sappiamo dove si trova tutto, dai bagni alla doccia calda, conosciamo gli orari delle maree, i posti in cui si formano le pozzanghere ideali per i bambini.
Ma scavando un po’ più a fondo, si apre un universo di motivazioni più intime, sfumature psicologiche che trasformano “la solita spiaggia” in qualcosa di simile a un rifugio segreto. Come un romanzo che si rilegge ogni anno d’estate, quella spiaggia diventa una sorta di rito iniziatico ricorrente. È il nostro luogo sicuro in un mondo che cambia velocemente. In una società liquida, dove i punti di riferimento si spostano di continuo, “la solita spiaggia” diventa un'àncora emotiva.
Scegliere la stessa spiaggia, una topografia della memoria e dell’identità
C’è qualcosa di profondamente simbolico in questa scelta reiterata. La spiaggia, con la sua orizzontalità infinita, è già di per sé un paesaggio che invita alla contemplazione e alla rielaborazione. Quando ci sdraiamo sotto l’ombrellone di sempre, è come se aprissimo una finestra su tutte le nostre estati passate. Quel posto conosce le nostre confidenze adolescenziali, le prime letture estive, le prime scottature (del cuore e della pelle). Ogni granello di sabbia è un frammento della nostra storia personale. La solita spiaggia è anche un contenitore di relazioni: i “vicini di ombrellone”, che magari non vediamo mai durante l’anno, diventano presenze familiari, testimoni discreti della nostra esistenza. Un microcosmo sociale sospeso tra finzione e realtà, in cui possiamo indossare una versione più leggera di noi stessi, fatta di ciabatte, giornali e battute da ombrellone.

Ma c’è di più. Scegliere sempre lo stesso luogo non è solo un atto nostalgico, ma anche un gesto identitario. In un mondo che ci spinge costantemente verso il nuovo, il diverso, l’inedito, la ripetizione di un gesto può diventare una forma di resistenza. Come dire: “questo sono io, e qui mi sento a casa”. La spiaggia diventa così un prolungamento della nostra interiorità, un luogo in cui possiamo sostare senza maschere, lontano dai ruoli imposti. Spesso, poi, la “solita spiaggia” è un’eredità affettiva. Un posto dove andavamo da piccoli con i nostri genitori, e dove ora portiamo i nostri figli. C’è una dolcezza ancestrale in questa trasmissione intergenerazionale di luoghi: lo stesso mare, gli stessi scogli, le stesse conchiglie raccolte a distanza di decenni. Il tempo si dilata, si stratifica, ci avvolge.
Non è pigrizia, è ritualità: ecco di cosa si tratta
Il ritorno ciclico alla solita spiaggia non è quindi un fallimento del desiderio di esplorare, ma la celebrazione di una ritualità che ci rassicura. È come tornare a leggere un libro amato: sappiamo già come andrà a finire, ma ogni rilettura ci svela qualcosa di nuovo su di noi. La spiaggia non è mai veramente la stessa, perché noi cambiamo, anche se lentamente. E questo cambiamento, percepito sullo sfondo di una cornice immutabile, ci fa sentire al sicuro. Anche il corpo si rilassa più in fretta in un luogo noto. Non deve orientarsi, esplorare, difendersi. La memoria corporea si attiva: sappiamo già dove sarà più fresca l’acqua al mattino, a che ora arriva l’ombra, quale sedia è più comoda. Questo tipo di “comfort evoluto” non è pigrizia, ma una forma di efficienza emotiva.
Inoltre, scegliere “la solita spiaggia” è un atto poetico, se lo si guarda con occhi nuovi. È un voler fermare il tempo, come in un fermo immagine di un’estate ideale. È un dire a noi stessi: “Ecco, qui posso respirare. Qui posso sentire il rumore delle onde senza pensare a nulla”. In un mondo che ci chiede costantemente di essere produttivi, anche in vacanza, il ritorno alla stessa spiaggia è una piccola forma di ribellione. Una scelta di lentezza, di profondità, di radicamento.
In definitiva, torniamo sempre alla stessa spiaggia perché è un luogo che ci riconosce e ci accoglie. Non ci chiede nulla, se non di essere noi stessi. E in un mondo che ci spinge a cambiare, a muoverci, a reinventarci, poter contare su un luogo che rimane, è un dono raro. Quella spiaggia, la “solita spiaggia”, non è noiosa. È magica. È il nostro porto sicuro, il nostro rifugio segreto, dove ogni estate può cominciare da capo. Ed è lì che vogliamo tornare, ancora una volta, come se fosse la prima.
