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È luglio, fa caldo, le ferie sembrano lontane e per molti italiani lavorare è diventato un vero peso. Secondo i dati Censis 2024, quasi il 58% degli occupati si dichiara insoddisfatto del proprio lavoro. Un dato che racconta bene l’umore diffuso: sempre più persone si sentono svuotate, demotivate, schiacciate dalla routine quotidiana.
In questo contesto si è fatto largo un termine inglese ormai noto anche ai meno avvezzi al mondo del lavoro digitale: quiet quitting. Un’espressione inglese che, tradotta alla lettera, significa “abbandono silenzioso”, ma che non va confusa con un vero e proprio licenziamento. Chi fa quiet quitting resta sul posto e non rinuncia allo stipendio, ma toglie il piede dall’acceleratore.
Quiet quitting: cosa significa davvero
Il quiet quitting descrive un atteggiamento di distacco emotivo e psicologico dal lavoro. Il dipendente non lascia l’azienda, ma smette di “dare tutto”. Fa il minimo sindacale, non accetta straordinari, non prende iniziative al di fuori degli obblighi del suo contratto. Si limita a “fare il suo” e basta.
Questo approccio nasce come risposta a situazioni lavorative percepite come tossiche o poco gratificanti. Sovraccarico di compiti, mancanza di riconoscimento, poche prospettive di crescita, o uno scarso equilibrio tra vita privata e professionale sono i fattori principali che spingono verso questa scelta. Una scelta che ha impatti concreti, sia sul lavoratore, che rischia di restare fermo, sia sull’azienda, che vede scendere motivazione e produttività.
Il consiglio di Aristotele (riscoperto su TikTok)
Tra chi ha provato a dare un’interpretazione più profonda a questa crisi del lavoro c’è Eugenio Radin, filosofo italiano diventato virale su TikTok. In un video che ha destato molto interesse sui social, Radin spiega come Aristotele, già nel IV secolo a.C., distingueva tra due modi diversi di vivere l’attività umana: poiesis e praxis.
“Poiesis – dice Radin – è l’attività che ha come scopo la produzione di qualcosa di esterno a me. Se faccio il vasaio, produco un vaso. Il vaso è il risultato, ma non sono io. È un oggetto che esiste fuori da me”.

Oggi, gran parte del lavoro moderno funziona così. Si produce, si eseguono compiti, si completano scadenze. Ma resta poco spazio per sentirsi coinvolti, rappresentati, realizzati in ciò che si fa. Ed è qui che entra in scena il secondo concetto aristotelico.
Praxis: quando il lavoro parla di noi
La praxis, spiega Radin, “è l’attività in cui io realizzo me stesso. È quella dimensione in cui non solo faccio qualcosa, ma cresco interiormente, mi esprimo, metto un pezzo di me in ciò che faccio”.
Il punto non è smettere di lavorare. Né pensare che ogni lavoro debba essere poetico, ispirante o perfettamente allineato con le nostre passioni. Il punto è trovare – dove possibile – uno spazio in cui trasformare il gesto meccanico in qualcosa di più personale. Un modo per dare senso a quello che facciamo, anche nelle piccole cose.
“Se nel vaso che creo – continua il filosofo – metto anche il mio gusto, la mia mano, il mio tocco artistico, allora sto facendo anche praxis. Sto trasformando un’attività esterna in qualcosa che parla di me. Anche nella fatica, posso inserire una dimensione di significato che alleggerisce il carico”.
Una prospettiva diversa, anche nei giorni peggiori
Non tutti possono scegliere il lavoro dei propri sogni. Non tutti possono cambiare settore, città o datore di lavoro da un giorno all’altro. Ma la riflessione di Aristotele, riportata da Radin, apre uno spiraglio. Ricorda che, anche in contesti difficili, possiamo provare ad inserire un pezzo di noi nelle nostre azioni quotidiane.
Nel pieno del caldo estivo, quando le energie calano e l’umore traballa, il pensiero di un filosofo vissuto oltre duemila anni fa può ancora sorprendere per lucidità. Forse non risolve tutto, ma offre uno sguardo nuovo: non lavorare solo per fare, ma per diventare.
