"Se ti dicono 'in bocca al lupo', non devi rispondere 'Viva il lupo'", artista spiega perché

Negli ultimi mesi, TikTok è diventato un vero e proprio salotto culturale dove tradizioni, simboli antichi e linguaggio popolare vengono messi sotto la lente. A finire al centro del dibattito questa volta è una delle espressioni italiane più celebri: "In bocca al lupo". E no, la risposta "Viva il lupo" non sarebbe corretta. Questo, almeno, è quanto sostiene @arkesia.music, artista, attrice e musicista molto seguita sui social.

In un video diventato virale, la tiktoker racconta l'origine di questo famoso augurio e perché, secondo lei, rispondere "viva il lupo" non solo è sbagliato, ma anche una semplificazione moderna di qualcosa di molto più profondo e antico.

Origine dell’espressione: un augurio apotropaico

L’espressione "in bocca al lupo" affonda le radici in un mondo lontano, pre-moderno, dove il lupo rappresentava il pericolo, il male, l’ignoto. Non c’era nulla di affettuoso o tenero in quella figura. Era il nemico. E proprio per questo, augurare “in bocca al lupo” significava evocare un male, ma con l’intento di scacciarlo.

Come spiega Arkesia, questa logica si inserisce nel concetto di rito apotropaico: in passato si pensava che nominare esplicitamente un evento favorevole potesse attirare l’invidia degli dèi – quella che i greci chiamavano φθόνος θεῶν (fthonos theon) – e provocare l’esatto opposto. Per proteggersi, si usavano frasi che evocavano il male per poi neutralizzarlo.

Un esempio? “Che il lupo ti sbrani!” seguito da “Che crepi lui per primo!”. È lo stesso principio su cui si fonda il nostro “in bocca al lupo”. L’augurio non è letterale, ma rituale.

Perché il lupo e non un altro simbolo?

L’artista non offre una risposta definitiva, ma presenta varie ipotesi. La più affascinante riguarda una possibile origine greca dell’espressione, da una frase che potrebbe suonare come “embaine alupon”, ovvero “entra senza dolore”. La parola “odon”, cioè “cammino”, sarebbe sottintesa. A questo augurio seguiva la risposta: “krè”, che in greco antico significa “è necessario”.

Questa ipotesi collega la frase a rituali iniziatici antichi, in cui chi vi partecipava attraversava una sorta di morte simbolica per poi rinascere in una nuova consapevolezza. Entrare “senza dolore” (letteralmente "imboccare") significava affrontare il passaggio con coraggio, sapendo che era parte di un processo inevitabile. Ecco perché dire “viva il lupo” distorce il senso originario: non si tratta di amare il lupo o rivalutarlo, ma di accettare il passaggio attraverso il male per superarlo.

Non bisogna rispondere "viva il lupo" a chi dice "in bocca al lupo".
Non bisogna rispondere "viva il lupo" a chi dice "in bocca al lupo".

Secondo Arkesia, rispondere “viva il lupo” rappresenta una modernizzazione del simbolo, un tentativo di addomesticare qualcosa che nasce con un significato oscuro e preciso. “Proprio perché amiamo i lupi, non serve che li rivalutiamo all’interno di frasi rituali che hanno altri significati”, spiega nel video. La frase originale non celebrava il lupo, lo usava come simbolo del pericolo da affrontare, attraversare, scacciare. Dire “viva il lupo” oggi può sembrare simpatico, ma neutralizza completamente il potere simbolico della formula. È come riscrivere un archetipo per renderlo più accettabile, più pop, ma anche più vuoto.

La risposta giusta? Il silenzio… o “krè”

Se vogliamo restituire valore alla formula, l’artista suggerisce due opzioni. La prima è il silenzio. Non rispondere affatto, proprio per lasciare intatto il senso dell’augurio. La seconda è rispondere con “krè”, ovvero “è necessario”, secondo il presunto uso antico. Una risposta colta, che però conserva tutto il peso simbolico dell’espressione. “In bocca al lupo” non è una carezza o un gesto d’amore per il lupo, ma una frase rituale legata alla cultura arcaica. Pensare alla lupa che tiene i cuccioli in bocca può essere una lettura affettuosa, ma del tutto estranea al significato originale.

Forse vale la pena, ogni tanto, lasciare che le parole restino misteriose. O almeno, non modificarle per adattarle al nostro bisogno costante di positività. Perché alcune formule hanno senso solo se ci mettiamo dentro anche un po’ di buio.

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