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Apri la bocca per ordinare un caffè, afferri un limone per condire l'insalata, ti butti sul divano dopo una giornata pesante. Ma lo sapevi che stai usando parole arabe? L’italiano è una lingua che ha accolto, assorbito e trasformato vocaboli da mezzo mondo. E tra le sue influenze più affascinanti c’è senza dubbio quella del mondo arabo, arrivata da secoli di scambi, dominazioni e rotte commerciali che hanno fatto da ponte tra l'Oriente e il nostro Mediterraneo. Oggi ti sveliamo cinque parole italiane comunissime che in realtà sono arrivate da molto lontano. Alcune sono passate attraverso Venezia, altre dalla Sicilia. Tutte, però, raccontano storie che vale la pena conoscere.
1. Caffè: dalla parola "qahwa" a simbolo dell’italianità
Dici “caffè” e pensi subito a Italia, espresso, bar, moka e pause in compagnia. Ma l’origine di questa parola non è affatto italiana. Il termine deriva dall’arabo “qahwa”, che in origine indicava una bevanda energizzante – e non solo per il sapore forte: si pensava avesse proprietà medicinali. La diffusione della parola (e della bevanda) in Europa è passata per Venezia. Era il 1645 quando nella Serenissima aprì la prima caffetteria europea. Da allora, il caffè non è mai più uscito dal nostro quotidiano. La parola si è evoluta, è diventata sinonimo di socialità, ma ha mantenuto intatto il suo legame con le origini. Oggi, mentre bevi un espresso al bar, stai letteralmente pronunciando un termine arabo.
2. Limone: dalla Persia ai piatti italiani
Il limone è il re degli agrumi. Sta ovunque: nel tè, nel pesce, nei dolci e nelle pulizie di casa. E anche lui ha una storia araba. Il nome deriva dal persiano “laymūn”, passato poi all’arabo e da lì all’italiano. Sono stati gli arabi a introdurre il limone in Sicilia e Spagna, durante le loro espansioni nel Mediterraneo. E proprio dal sud Italia, con le sue coltivazioni rigogliose, è diventato parte integrante della cucina italiana. La parola, invece, è rimasta quasi immutata nei secoli. Un’eredità linguistica che oggi tagliamo a fettine e spremiamo senza pensarci troppo.
3. Zero: il “vuoto” che ha rivoluzionato la matematica
Può sembrare solo un numero, ma lo zero è una delle invenzioni più importanti nella storia della matematica. E non a caso ci arriva… dall’arabo. Il termine italiano viene dalla parola araba “ṣifr” (صفر), che significava proprio “vuoto”. Questo concetto era già noto in India, ma furono i matematici arabi a portarlo in Europa, insieme all’intero sistema numerico decimale. Senza lo zero, oggi non esisterebbero l’informatica, le calcolatrici né tanto meno il nostro sistema contabile. E pure la parola “cifra” ha la stessa radice di “ṣifr”. Ogni volta che fai un bonifico o calcoli quanto hai speso al supermercato, stai usando un’eredità araba.

4. Ragazzo: da “messaggero” a adolescente
“Guarda quel ragazzo laggiù”. Frase normalissima. Ma anche “ragazzo” ha un passato linguistico insospettabile. La parola italiana affonda le sue radici nel latino medievale “ragatius”, che però – secondo numerosi filologi – sarebbe un prestito dall’arabo “raqqāṣ”, che indicava un messaggero, un corriere, un portatore di notizie. Col tempo, in Italia, il termine ha cambiato completamente significato. Dalla figura del messaggero, si è trasformato nell’indicazione generica di giovane, poi di bambino e infine di adolescente o adulto giovane. Un’evoluzione semantica pazzesca, che dimostra quanto le parole viaggino e si trasformino insieme alla società.
5. Divano: da ufficio amministrativo a regno del relax
Ti sei mai chiesto perché il divano si chiama divano? Semplice: perché in origine non era un oggetto comodo per guardare la TV, ma uno spazio dove si amministravano documenti e si discuteva di questioni ufficiali. La parola “divano” deriva dall’arabo “diwan”, che indicava una sala governativa con panche e cuscini dove si custodivano registri e si gestiva la burocrazia. Dalla stanza di potere è passato all’arredamento. Ed è diventato uno degli elementi più amati della casa moderna. Oggi lo associamo al relax, alle serie Netflix, al pisolino post-pranzo. Ma la sua origine racconta un mondo di potere, scrivanie e registri fiscali.
Bonus: Tamarro, il “venditore di datteri” che oggi fa discutere
Non potevamo non citare questa chicca. Il termine tamarro, oggi usato per descrivere una persona appariscente, rozza, che esagera con tatuaggi, catene e stereotipi di bassa eleganza, ha origini nel dialetto arabo del Maghreb. La parola arriva da “tammar”, che significava venditore di datteri. Col tempo, il termine è stato ripreso in alcune aree del Sud Italia, trasformandosi semanticamente fino ad assumere il significato attuale, spesso usato in chiave ironica o spregiativa. Ecco come un commerciante di frutti dolci è diventato sinonimo di eccesso kitsch nei discorsi di tutti i giorni.
